Sulla strada dei campi di concentramento

PIETRO MARGHERI – MARCO PUPPINI – memoriedispagna – 07/04/2003
SULLA STRADA DEI CAMPI DI CONCENTRAMENTO
Di Carlo Bacca

Siamo sulla strada che da Port Bou sale alla frontiera francese. Alle nostre spalle si odono già i canti delle truppe di Franco. La Repubblica spagnola aveva sostenuto per tre anni una guerra sanguinosa con la forza del suo popolo e la solidarietà internazionale delle masse lavoratrici e intellettuali, mentre i governi democratici di Francia e Inghilterra applicavano quella nefasta politica del “non intervento”, che in realtà facilitava l’aggressione fascista. Vincere il fascismo in Spagna avrebbe dato un nuovo impulso alle forze democratiche e il corso della storia si sarebbe modificato perché “la seconda guerra mondiale poteva essere evitata”. Così si esprimeva Santiago Carrillo, segretario generale del Partito comunista spagnolo, ed era quello che la reazione non voleva.
L’11 febbraio del 1939, verso le 16,00 del pomeriggio, io ed i miei compagni passammo la frontiera francese, tra una schiera di guardie mobili, che ci guidavano per una scorciatoia che scendeva fino a Cerbère, la prima città dopo il confine. Sotto un hangar raggiungiamo la folla dei rifugiati arrivati prima di noi, dai quali avevano già separati le donne ed i bambini. Ci tenevano lontani dalla popolazione che voleva portarci dei soccorsi e testimoniarci la loro simpatia. Il freddo era pungente. Avevamo fame e i feriti o ammalati necessitavano cure. Essi non erano curati con il pretesto che l’ospedale già pieno non poteva accoglierli, “però giunti a destinazione avrebbero trovato tutto quello che necessitavano”. Ripensai alle parole di Negrin e della Passionaria, quando ci dicevano che “la strada della frontiera conduce alla schiavitù”.
La mattina dopo verso le otto, cominciò la marcia dolorosa di quaranta chilometri, che doveva farci arrivare al nostro destino. Inutile dire che durante la marcia le soste si facevano sempre fuori dai centri abitati per evitare il contatto con le popolazioni.
Finalmente, stanchi ed affamati, arrivammo in un luogo che non potemmo subito identificare, soprattutto per l’oscurità quasi totale in cui era sommerso. Dopo essere passati davanti ad una baracca debolmente illuminata, le guardie ci lasciarono dicendoci “Arrangiatevi”.
Eravamo sulla spiaggia di Argelés sur Mer, dove i freddi venti dell’inverno, venendo dalla terra e dal mare, sollevavano nubi di sabbia umida che gelavano le ossa. Abbandonati dai nostri guardiani, cercavamo di distinguere tutto ciò che ci circondava, mentre il vento urlava. Qua e là piccole luci brillavano nell’oscurità della notte, mentre s’udiva qualche lamento e il pianto di un bambino. Ma i freddo vivo, la stanchezza della lunga marcia fecero sparire la nostra curiosità, onde cercare un riparo al corpo stanco ed intirizzito. Ci mettemmo a scavare un buco nella sabbia umida, poi, serrati l’uno contro l’altro, ci coprimmo con le nostre coperte.
Dormire non era possibile. Quando l’alba rischiarò quella lingua di spiaggia, uscii dal rifugio con le ossa rotte. Lo spettacolo era più che rattristante, doloroso. La prima cosa che pensai fu ai poliziotti. Quando passammo la frontiera ci avevano detto con mal celata ironia: “non preoccupatevi, sarete ben ricevuti, perché la Francia fa per voi un grande sacrificio finanziario”.
Vedemmo un recinto di fili spinati dietro i quali passeggiavano giovani neri armati di fucile e di una sciabola. Donne e bambini dormivano sulla sabbia. Da una baracca vidi uscire molta gente, più del doppio di quanto ne poteva contenere. Uomini donne, soldati, ragazzi e vecchie cominciavano ad animare quel triste luog, chi correndo verso la spiaggia per i loro bisogni, chi cercando materiale per accendere un fuoco. Il vento si era calmato un po’, una orribile puzza veniva dalla spiaggia vicina portata dal vento del mare, che passando su una larga crosta di escrementi si diffondeva per il campo. Quanti erano gli abitanti di quello che veniva cinicamente definito camp d’accueil? Si è detto cinquantamila, ma credo molti di più. Era un groviglio umano indescrivibile. Dall’entrata alla fine del campo non vi erano più di seicento o settecento metri. Oltre la baracca della po,lizia, qualche altra dove venivano stipati un numero esagerato di persone. Il resto era accampato sulla sabbia riparandosi con stracci o coperte, come meglio si poteva.
Ma il dramma non finiva lì. In quella città del dolore concentrato e della fame, uno sciame di corvi rodeva intorno per approfittare della miseria umana. Mercanti senza scrupoli, tollerati dalla polizia, offrivano del pane o una scatola di latte a delle madri in cambio non di denaro, ma di gioielli che, con dolore, le donne si strappavano dalle dita o dalle orecchie. Se qualche povera donna affamata protestava per l’ingiusto cambio, gli rispondevano che quell’oro non valeva nulla. Se era un soldato a vendere un gioiello o un moneta d’argento, per non pagarli al loro giusto valore, gli dicevano che tanto era oro rubato. Non bastava il vergognoso mercato lo accompagnavano con insulti.
No! La Francia non era quella, la vera, quella di Valmy, della Comune e del suo popolo generoso amante della libertà. Quella Francia era stata presente nella lotta sulle trincee di Spagna coi suoi volontari della XIV Brigata, e che seppero battersi e morire col popolo spagnolo per la libertà. La distribuzione del pane fu una cosa veramente vergognosa. Verso le quattordici del pomeriggio, un camion si installò nel mezzo del campo circondato subito da una folla di affamati. Invece di distribuirlo, cominciarono a gettarlo, come lo si getta ai lebbrosi. Ma il sadico gesto non ebbe l’effetto desiderato su quella gente bisognosa anche nella miseria. Appena un uomo o una donna aveva il su pane se ne andava o aiutava un’altra a raccoglierlo, e alla fine, se qualcuno era rimasto senza pane, si dividevano quello raccolto, affinché ciascuno avesse la sua parte. Contro quella provocazione e umiliazione i rifugiati risposero con calma esemplare e dignitosa. I pretesti invocati per quella distribuzione erano l’improvviso afflusso di una massa enorme di rifugiati e il tempo occorrente per organizzare le cose. Anche i gabinetti furono installati tre o quattro giorni dopo. Tuttavia se quell’afflusso poteva giustificare qualche imprevidenza, lo spirito poliziesco di quella organizzazione era la sola ragione che determinava le direttive. Si voleva fare del rifugiato spagnolo un paria, per spingerlo a ritornare in Spagna sotto la ferula franchista.
La stampa di destra francese sosteneva con virulenza che tutti quei rifugiati costavano caro allo stato, ma non diceva che la stragrande maggioranza di quella gente sarebbe stata accolta da paesi democratici come il Messico o altri paesi, e che proprio il governo francese ne impediva la partenza. Anche noi, delle Brigate Internazionali, dopo essere stati controllati dalla Commissione di Non intervento, quando ci ritirarono dal fronte, per volere della repubblica spagnola, potevamo partire verso paesi liberi che ci accoglievano. Ma le autorità preferirono tenerci nei campi di Argelés sur Mer, St Cyprien ed in seguito Gurs, nel disegno ben chiaro di impedire all’antifascismo di continuare la lotta.
Nei primi giorni potevamo girare liberamente nel campo e mescolarci coi nostri compagni spagnoli, ma dopo ci separarono mettendoci alla estremità del campo, in una zona cintata da fili spinati. Era questa la prima misura efficace della polizia, per meglio sorvegliarci. Si comprendeva che ci tenevano a sorvegliarci. Dopo la distribuzione delle tende militari, ci ritrovammo sotto una di queste in cinque compagni (dove avrebbero dovuto starci in due): io, Morbiot (Berti di Imola), Quarantotto, Francioli e Foti. Eravamo sporchi, pieni di pidocchi, dato che senza sapone non ci si poteva lavare, ma il morale era buono. Tutti ridevamo per le facezie di Morbiot, salvo Quarantotto, sempre serio e brontolone. Il vento e il freddo ci immobilizzavano sotto la tenda in interminabili discussioni. La guerra che il fascismo preparava era il tema generale delle nostre discussioni. Tre anni di lotta sulla terra di Spagna ci avevano dato coscienza della minaccia che pesava sull’umanità. Non avevamo fiducia nei governi democratici per opporsi ai progetti criminali di Hitler e Mussolini. Il governo francese non solo aveva riconosciuto Franco fin dai primi giorni della disfatta repubblicana, ma gli aveva inviato come ambasciatore il Maresciallo Petain.
Intanto sulla linea Maginot i soldati francesi cantavano e facevano asciugare la biancheria sugli spalti, mentre una repressione feroce si scatenava contro l’antifascismo e tutti i partiti che denunciavano il pericolo di una nuova guerra, preludendo già alla drôle de guerre. Lo spirito e gli scopi della reazione noi li sentivamo nel comportamento della polizia, nell’organizzazione stessa di questi campi d’accueil per i rifugiati spagnoli e per noi, che rappresentavamo l’antifascismo più attivo che aveva preso le armi contro il fascismo a fianco del popolo spagnolo. Tra di noi c’era una cera tendenza all’evasione e ciò no sarebbe stato tanto difficile, ma ordini venuti dall’esterno ci dicevano di non farlo, perché avremmo messo in imbarazzo le organizzazioni. A malincuore accettavamo più per spirito di disciplina che per convinzione.
Tre mesi dopo il nostro arrivo fummo trasferiti a Gurs, nei Bassi Pirenei, in un altro campo, edificato senza economia dato il numero di baracche e con un’organizzazione dalla quale si poteva dedurre che non vi era nulla di provvisorio, anzi che era stato costruito proprio per una lunga permanenza. Ci restammo 18 mesi, cioè fino allo scoppio della guerra.